Avrà il suo cuore al Chicago Cultural Center, ma troverà ampia diffusione anche in altre location della principale città dell’Illinois: è la Biennale di Architettura di Chicago, evento senza precedenti nella storia del Nord America, al via il 3 ottobre. Direttori artistici della prima edizione sono Sarah Herda, dal 2006 alla guida della Graham Foundation, e Joseph Grima, architetto, curatore, editor-in-chief di Domus dal 2011 al 2013. Lo avevamo incontrato un anno fa, nella veste di Direttore Artistico di Matera 2019, lo ritroviamo dall’altra parte dell’oceano alla vigilia dell’apertura della CAB.

Perché a tuo avviso questo appuntamento arriva proprio ora? 
Il progetto parte da una visione del sindaco di Chicago, Rahm Emanuel, un amministratore animato dal desiderio di rafforzare il profilo culturale della sua città. Negli ultimi anni, con i suoi collaboratori, ha avviato un’analisi sulla gestione della cultura: l’architettura è subito balzata in primo piano, perché da oltre un secolo è il punto di assoluta forza di questa metropoli. Da qui è partita l’idea di promuovere non una mostra o una “celebrazione” del patrimonio architettonico locale, quanto un evento del tutto assente nel Nord America, una Biennale appunto: per riempire un vuoto storico e costituire un nuovo polo internazionale per l’architettura.

Allora anche gli Stati Uniti cercano di posizionarsi nello scacchiere mondiale delle Biennali?
Osservando il panorama globale, si assiste al fiorire di queste manifestazioni ed è lecito domandarsi la ragione. Sono convinto che riescano ad avere una maggiore risonanza rispetto a quanto accadeva solo qualche anno fa con altre piattaforme di condivisione culturale, tra cui cito le riviste, prima di tutto, in passato più centrali nel dibattito sulla disciplina.
La facilità di viaggiare e la crescente volontà delle persone di formarsi un’opinione propria, non mediata da Internet o dai media, generano un interesse inedito che spinge ad avvicinarsi, in prima persona, anche all’aspetto teorico dell’architettura. Dunque la Biennale diventa anche il “format” per offrire, non soltanto a Chicago, un’opportunità di crescita e riflessione diretta su vari temi.

Esaminando la nutrita lista dei partecipanti, la stampa statunitense ha messo in evidenza l’assenza di archistar. A quale architettura e a quali architetti avete scelto di dare visibilità? 
La Biennale ha volutamente aperto le braccia a un numero cospicuo di presenze: abbiamo 95 partecipanti, tra singoli e team, da cinque continenti. Più che celebrare lo straordinario talento dei grandi progettisti contemporanei, già opportunamente omaggiati in molte maniere e in altri contesti, lo spirito fondativo della CAB è condurre un’indagine. Per questo sarà un evento di ampio respiro e fortemente inclusivo, con progettisti con diversi livelli di esperienza e con riconoscimenti eterogenei alle spalle: ad esempio, avremo architetti usciti da meno di due anni dalle aule universitarie insieme a progettisti incaricati dalle Serpentine Galleries di realizzare il Pavilion estivo, come SelgasCano o Sou Fujimoto.

Con questa attività di curatela iniziate a definire l’identità della Biennale di Chicago. Tra gli elementi di novità avete introdotto un concorso finalizzato alla realizzazione di un chiosco per il lungolago. Credete che una possibile “strada maestra” per questi eventi sia evolversi nella forma di progetti permanenti, capaci di incidere sul tessuto locale con continuità e oltre il periodo di apertura? Cosa vi aspettate da questa esperienza?
Trattandosi della prima mostra di questo tipo nell’America del Nord, esserne curatore vuol dire avere la chance di “gettare le fondamenta”, ma anche l’onere di introdurre al pubblico locale, molto meno avvezzo di quello europeo, l’idea stessa di Biennale. Potremmo quasi paragonarci ai costruttori di un grattacielo: l’edificio sarà capace di innalzarsi con il tempo, ma spetta a noi assicurargli una base solida e stabile.
In quest’ottica il concorso diviene funzionale a mostrare una visione più elastica dell’architettura: proponendo interventi effimeri, intendiamo portare all’attenzione di un gran numero di persone anche una dimensione leggera, piacevole, gioiosa della disciplina. Mi piacerebbe se questa diventasse una tradizione della CAB e magari venisse replicata altrove: sono convinto che possa rappresentare l’occasione ideale per esperimenti urbani nei quali, come nel caso di Chicago, viene data l’opportunità a progettisti di talento, talvolta sottovalutati, di mettersi alla prova con contesti complessi o stratificati.
Mi preme ricordare che esistono dei precedenti: in Corea, nell’ambito della Gwangju Biennale, vengono realizzati piccoli padiglioni intorno alla città; in quel caso si tratta di una commissione, non di un concorso, ma lo spirito è lo stesso.

Autoproduzione, autocostruzione, progettazione partecipata e pratiche analoghe sono sempre più diffuse nel panorama del design e dell’architettura. Attraverso la vostra attività di ricerca per la Biennale, quali cambiamenti state rilevando nella figura e nel ruolo degli architetti contemporanei?
Abbiamo scelto di indagare la dimensione pratica della professione, presentandone una visione globale, per dimostrare la varietà delle risposte offerte sulle questioni più urgenti. Uno dei temi forti della Biennale è la crisi della domesticità: mutamenti climatici, crescita della popolazione, disuguaglianze economiche impongono di ragionare sull’abitare, sulla casa intesa come spazio-rifugio. Le 95 figure presenti, che per noi rappresentano lo stato dell’architettura attuale, le abbiamo individuate domandandoci schiettamente: “Oggi, chi sta esplorando una nuova dimensione? Chi sta correndo dei rischi?”.
Per esplicitare il cambiamento significativo in corso nella professione, credo possa essere utile riportare un aneddoto: nel 1977, anno della mia nascita, Chicago ha ospitato la conferenza State of the Art of Architecture, da cui la CAB prende il nome. Era organizzata dall’architetto Stanley Tigerman: c’erano 17 ospiti, tutti architetti maschi e bianchi. Alla CAB avremo un grande equilibrio tra uomini e donne, oltre ad ospitare rappresentanti provenienti da ogni parte del mondo.

Per chiunque si metta alla prova con l’organizzazione e la curatela di un evento così, sembra inevitabile un confronto con la Biennale di Architettura di Venezia. In quale modo cercherete di tracciare una strada autonoma e riconoscibile?
La Biennale di Venezia è una straordinaria piattaforma di prestigio ineguagliato: la sua tradizione è meravigliosa e l’Italia intera deve essere fiera di questa eccezionale istituzione. Chicago è per molti aspetti l’esatto opposto di Venezia e dunque ha la possibilità di attivare un processo che, anche a causa dell’anomalia urbanistica della città veneta, unica nella sua attrattiva e nel suo carico di vincoli, lì non sarebbe pensabile o attuabile.
Chicago è il modello per qualsiasi altra città moderna: è stata pioniera dell’innovazione e della modernità nel senso più ampio del termine, ha dovuto comprenderne le problematiche e superarne i limiti. Nonostante sia una metropoli afflitta da tanti drammi – segregazione sociale, disparità economica tra quartieri e cittadini, problematiche infrastrutturali di varia entità – grazie alla Biennale può divenire un laboratorio stabile di ricerca, dove sperimentare e intraprendere percorsi specifici per la modernità.

Cosa ne pensi della scelta di affidare ad Aravena la prossima Biennale di Architettura? 
Ho sincera ammirazione per il coraggio della sua proposta: ha scelto un tema spinoso, complesso, poco seducente, direi anche doloroso. Dunque, non posso che dichiarare il mio apprezzamento per l’orientamento che intende dare alla prossima mostra di Venezia.

Dalla direzione di Storefront alla direzione di Domus, dalla curatela di Istanbul Design Biennial 2012 a quella per la Biennale Interieur di Kortrijk, da direttore artistico di Matera 2019 fino all’attività di ricerca con il tuo studio genovese Space Caviar: questi incarichi ti hanno portato a misurarti con tematiche e scale di intervento anche molto distanti. Come sono connessi tra loro e come si sta evolvendo il tuo percorso professionale? Quali aspetti di una comune ricerca si possono evidenziare? 
Ciascuna di queste attività è espressione dell’architettura. Porre le basi per la Biennale di Chicago, sviluppare un programma culturale per Matera 2019 – in quel caso mi interessava soprattutto concepire la città come un palcoscenico, cogliere le reazioni prodotte dalle attività culturali una volta riflesse in quello specifico tessuto urbano –, riconsiderare il valore e la qualità degli spazi interni: ognuna di questa esperienze costituisce una piattaforma per la produzione e la creazione, ognuna è la testimonianza concreta del potenziale di questa disciplina.
L’architettura non è sinonimo di produzione di un involucro rigido, solido e destinato a specifiche funzioni. Dalla scala urbana a quella domestica, credo nel continuo interrogarsi su come l’architettura possa mettersi a servizi delle esigenze del contesto di riferimento, oltre i limiti, le certezze precostituite. L’atteggiamento cui dovremmo tendere è quello di “essere progettisti dell’architettura stessa.” E invece non sempre è così. In Italia la materia vive una crisi senza precedenti storici: le università sfornano architetti con scarsissime speranze di trovare un impiego, un’assoluta follia, e la disciplina, così come viene insegnata, sembra corrispondere a un altro contesto storico, risultando spesso obsoleta. Credo quindi che dovremmo fare un passo indietro, riconsiderarne il ruolo nel mutato ambiente sociale, economico e politico, lasciando alle spalle certe convenzioni e tutto quanto la società pensa di sapere sulla figura dell’architetto.

In parte questo è quanto state facendo anche con Space Caviar, penso ad esempio al tema della domesticità e al prototipo RAM House che avete presentato allo scorso Salone del Mobile. Come procede quel progetto? Quali altre iniziative avete in cantiere?
RAM House sta evolvendo, assieme alla società italiana che ne ha prodotto il prototipo. In più, siamo impegnati con alcuni progetti nell’Europa dell’Est. Ci stiamo occupando dell’allestimento di una retrospettiva a Timisoara, in Romania, dedicata al collettivo di artisti e architetti radicali locali, i SIGMA. È un’esperienza di interesse straordinario, perché la loro opera è sconosciuta oltre i confini del Paese: è veramente stimolante accorgersi che esperimenti analoghi a quelli più noti avvenivano anche lì, tra l’altro con sconfinamenti nella pedagogia e nella didattica. Inoltre stiamo sviluppando un laboratorio sperimentale per Plovdiv 2019 Capitale della Cultura, ma la nostra vera ossessione e passione resta l’editoria, in particolare l’editoria algoritmica.

Editoria algoritmica?
Di recente abbiamo esposto al Victoria&Albert Museum di Londra FOMObile – Fear Of Missing Out, nuovo sviluppo della nostra idea di rivista algoritmica, FOMO, un ibrido tra l’editoria umana e il contributo automatizzato della macchina. Sempre nell’ambito editoriale, stiamo producendo un catalogo sperimentale per una fondazione greca che sarà distribuito in occasione di una prossima mostra: il criterio dell’allestimento della mostra, ovvero l’assenza di gerarchia, sarà chiaramente individuabile anche nel catalogo, con contenuti e quantità di pagine stampate diverse. Pensa, della stessa mostra, non esisteranno due copie identiche del catalogo!

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